
Rita Atria, una ragazzina che ha combattuto la mafia dall’interno. La sua storia è degna di essere raccontata perchè portatrice di speranza per i ragazzi che vivono in ambienti in cui Cosa Nostra impera. Rita è il simbolo dell’antimafia più vicino e comprensibile alle giovani generazioni, per la sua giovane età e per la portata di quello che ha fatto. Insieme a Peppino Impastato, ci insegna che non sempre i figli scelgono di seguire l’esempio dei padri; non sempre i figli rispettano i valori malsani inculcati da chi li messi al mondo. Sta a loro decidere cosa fare. Anche loro hanno il potere di esercitare una scelta e di originare il cambiamento.
Rita Atria nasce a Partanna (Tp), il 4 settembre del 1974. E’ la terza figlia di Don Vito Atria detto il paciere. Se da un lato è adorata dal padre e dal fratello Nicola, dall’altro la madre la bistratta facendole capire sin da subito di non essere stata desiderata. Rita ha anche una sorella maggiore, Annamaria, che fugge presto dalla comunità nativa e che interrompe i contatti con la famiglia. E’ in questo clima familiare, quindi, che la ragazza si lega maggiormente alle figure maschili del nucleo familiare piuttosto che a quelle femminili. Il padre e il fratello sono le persone che ama di più al mondo. Ma Rita, in un primo momento, non capisce in che cosa consiste veramente il lavoro del padre e del fratello. Perciò assiste a quello che succede intorno a lei in silenzio, senza fare commenti, come devono fare le donne degli uomini d’onore… E involontariamente appunta tutto questo nel suo diario.
Vito Atria è la longa manus degli Aragona, nota famiglia mafiosa del paesino del trapanese. I loro avversari sono gli Onofrio che si sono arricchiti (anche loro!) con i soldi stanziati dallo Stato per ricostruire il paese distrutto dal sisma del 1968. Ad Atria ci si rivolge per recuperare l’onore perduto, per ricomporre liti tra compaesani e uomini d’onore, per far ragionare le vittime dei loro soprusi e per fargli capire che non è il caso di fare tanto chiasso ma che bisogna piuttosto calare la testa e far finta di niente. Tutte le donne di Partanna sono sue. Tutte le pecore smarrite vengono ritrovate da lui. Finchè un giorno, dopo avere rubato un gregge e averlo riportato all’ovile per l’ennesima volta, il padrone del suddetto bestiame decide di non pagare il disturbo come voleva la prassi ma chiede agli Aragona di punire Don Vito. Da parte sua, l’imputato decide di farsi giustizia da sè e fa venire tre killer da Castelvetrano per sistemare la faccenda. Inizia così la parabola discendente del paciere. E il colpo di grazia arriva dopo che ha pubblicamente criticato i nuovi interessi di Cosa Nostra, ovvero non più le terre e il bestiame ma il narcotraffico. Ripudiato dagli Aragona, viene ucciso 18 novembre 1985 mentre conduce gli armenti al pascolo.
Il figlio Nicola entra nel giro del malaffare locale spacciando droga sin da giovanissimo. Si fidanza con Piera Aiello, la quale, avendo scoperto l’oscura origine dei guadagni dello zito, rompe il fidanzamento. Ma Don Vito la fa ragionare e i due si sposano. Pochi giorni dopo le nozze muore Vito Atria. Dopo il matrimonio con Piera, Nicola non frequenta più la sua famiglia d’origine. Sua madre Giovanna non digerisce la nuora dalle idee strambe e contro la sua mentalità di donna d’onore. Rita rimane sola nel suo dolore. Si trasferisce a Sciacca e studia all’istituto alberghiero. Un giorno all’uscita dalla scuola incontra l’amato fratello. Da allora ricominciano a vedersi di nascosto dalla madre che teme che la nuora influenzi negativamente Rituzza.
Intanto, i due sposini vanno a vivere a Montevago. Prima gestiscono il bar della famiglia di lei e poi cominciano a lavorare in una famiglia di un caro amico tornato dalla Germania. Sebbene Piera sia riuscita ad allontanare il marito dal suo losco passato, Nicola rientra nel narcotraffico per dicare il padre, come è giusto che sia… nel codice d’onore! Durante le sue ricerche, scopre di avere persino offerto il caffè nel suo bar alla sua vittima. Così tenta di ucciderlo ma non ci riesce. Dopo essere uscito allo scoperto, sa di non avere molto da vivere. Infatti, la vendetta annunciata arriva il 24 giugno del 1991. Nicola aveva confidato tutto questo e altro ancora a Rita. E lei aveva trascritto tutto nel diario, come sempre.
Il giorno della morte del fratello, il cuore di Rita deve essere scoppiato sotto il peso di tanto dolore. Adesso era sola al mondo e tutto per colpa di quelle leggi non dette che infarcivano la sua vita quotidiana e l’ambiente in cui viveva. All’improvviso deve avere capito che quelle leggi non erano poi così giuste e che lei poteva fare in modo che tutto questo finisse. Era tutto scritto lì, nero su bianco, nelle pagine dei suoi diari segreti. Lei e Piera, la cognata che le era stata sempre vicina, decidono di parlare. Diventano così testimoni di mafia. Decidono di cambiare vita per se stesse e per Vita Maria la figlia del loro amato Nicola. Vanno a vivere a Roma, cambiano identità e conoscono Paolo Borsellino. Rita lo chiama “lo zio Paolo”. In lui trova protezione. A lui si affida ciecamente e totalmente. Grazie a zio Paolo inizia a collaborare e rivelare un mondo e una mentalità allora pressocchè sconosciuti. Ma il 19 luglio del 1992 Borsellino muore e Rita si sente di nuovo sola e abbandonata. Non ce la può fare a combattere senza il suo angelo custode. Senza il suo appoggio non potrà più lottare contro la mafia. In preda allo sconforto, il 26 luglio 1992, una settimana dopo l’attentato di via d’Amelio, Rita Atria si butta dal balcone della sua nuova abitazione sita in via Amelia, nome che ricorda con amara ironia quello della strada in cui lo zio Paolo aveva trovato la morte. Aveva 18 anni!
Dopo il suicidio della cognata, Piera Aiello, la vedova senza onore (secondo la mentalità mafiosa), sostenuta da sempre dalla propria famiglia d’origine, ha continuato a collaborare con la Giustizia. Grazie a lei e a Rita molti mafiosi sono stati arrestati e molti episodi della storia di Cosa Nostra sono stati ricostruiti. Nel 2012, Piera pubblica il libro Maledetta Mafia scritto a quattro mani con Umberto Lucentini, giornalista e biografo di Borsellino. Attualmente è il presidente di un’associazione antimafia che porta il nome della giovane cognata.
Il coraggio di Rita, per molti ancora sconosciuto, rivive attraverso testi letterari e teatrali ispirati alla sua vicenda, tra cui il film La siciliana ribelle del 2007 diretto da Marco Amenta.