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Le donne sconosciute di Palermo

Spesso c’è il bisogno di un evento che traumatizzi le coscienze per avere un cambiamento radicale nella società umana, non lo dico io, ma i fatti avvenuti durante millenni di storia umana. Nel nostro caso siamo negli USA tra la fine del 1800 e gli inizi del ‘900. Nonostante sia passato quasi un secolo non si sa ancora in che circostanze sia avvenuta la tragedia di un centinaio di donne uccise e che diede il via alla ricorrenza dell’8 Marzo: molte fonti parlano di un incendio in una fabbrica a New York nel 1908, altre di una repressione poliziesca newyorkese nel 1857, e così via… tutto perché le donne, così come molti altri operai, venivano sfruttate al limite della sopportazione umana e pagati una miseria. Solo dopo il famoso incendio di una fabbrica tessile in cui al suo interno vi erano circa 120 donne, le cose cambiarono lentamente e senza sosta fino a quando nel 1977 le Nazioni Unite riconobbero pari diritti alle donne ricordando quell’evento tragico in una data, 8 Marzo.

Ma per l’essere umano la parola memoria è un’arma a doppio taglio, può restare immutata per secoli, influenzata, radicalmente soppressa o spesso vandalizzata. Tralasciando per un momento i libri di storia e i fatti di cronaca contemporanea; siamo davvero sicuri del vero significato della Giornata Internazionale delle Donne? Ebbene si! È il vero ed unico appellativo per indicare l’8 Marzo, e non è una “festa” come molti, erroneamente, suppongono. Un giorno per ricordare donne assassinate, violentate, incapaci di poter esprimere la propria idea o, ancora peggio, viste solo come mezzo per procreare, è da considerarsi festa?

In Sicilia, in particolare Palermo, le donne spesso sono arrivate qui in schiavitù durante le varie dominazioni; hanno subito uno sradicamento culturale come i matrimoni combinati, o ancora peggio vittime del proprio rango sociale. Ma in questa isola baciata dal sole, e piena di ombre, si sono contraddistinte figure femminili sia piene di coraggio, audacia ed esempi per le generazioni future e anche donne serial killer entrate successivamente nel folklore.

Una donna coraggiosa fu la famosa palermitana Costanza d’Altavilla (1154-1198), regina di Sicilia nonché imperatrice del Sacro Romano Impero, che si sposò all’età di 32 anni (anziana per l’epoca) con Enrico VI di Svevia. Prima di tale evento è utile sottolineare una cosa fondamentale che diede successivamente vigore nell’animo di Costanza: ella trascorse un periodo della sua vita in convento senza mai prendere i voti, rimanendo una donna laica fino alle nozze. All’età di 40 anni restò incinta ed avrebbe partorito l’erede al trono Federico II, lo stupor mundi. Subito incominciarono le dicerie e le illazioni tanto da considerare il futuro figlio come l’anticristo in quanto sarebbe nato da un’anziana monaca (tutt’altro che falso), mentre molti non credettero alla gravidanza di Costanza. Così venne costruito un baldacchino situato nella piazza di Jesi nel 1194 e pubblicamente partorì il figlio. Dopo la morte prematura del marito Enrico, Costanza dovette mettersi sulle spalle l’enorme peso della corona e le frequenti guerriglie con il papato e le tensioni fra i tedeschi e i normanni, gestendo l’impero fino a quando non lasciò il figlio di 4 anni sotto l’ala protettrice del Papa Innocenzo III e morire l’anno successivo.

Una donna, invece, più sfortunata fu Bianca Lancia, l’unica che rubò il cuore di Federico II.  Il colpo di fulmine avvenne nel 1225 quando ancora l’imperatore era sposato. Inizialmente furono amanti e dopo la morte della moglie di Federico, il loro rapporto divenne clandestino e inopportuno per un uomo vedovo e di alto rango. I cronisti dell’epoca la descrivono “bella come una favola romantica” tanto che l’imperatore ne fu abbagliato. Dalla loro relazione nacquero due figli illegittimi, Costanza e Manfredi. Rimasta per molti anni segregata nel castello di Gioia del Colle (Puglia), forse per gelosia o per riservatezza, si ammalò. Secondo una leggenda durante la sua ultima gravidanza, Federico la rinchiuse nel castello e lei straziata dal dolore e dall’umiliazione si tagliò i seni e li inviò all’amante svevo su di un vassoio insieme al figlio; dopo di che morì. I cronisti narrano che soltanto in punto di morte di Federico legittimò i figli e si sposò con Bianca. Molte legende, ancora oggi vive, tentano di far emergere quella strana storia d’amore, come la leggenda della Dama Bianca di Monte Sant’Angelo che apparirebbe nella rocca federiciana sul balcone e a lungo reclusa; oppure che i fantasmi dei due innamorati girino ancora oggi nel castello.

Col passare dei secoli molte donne si sono distinte come Rosalia Sinibaldi, cioè Santa Rosalia, una giovane aristocratica che scelse l’amore per Dio e per tale scelta obbligata a scappare dalla sua famiglia e dai suoi pretendenti; oppure l’intraprendente catalana Caterina Lull ?ebastida, mercantessa attiva in Sicilia nel XV secolo; oppure di Filippa Cordovana, conosciuta come suor Geltrude e vittima dell’inquisizione.

Era il 6 aprile del 1724 quando suor Geltrude venne bruciata viva insieme a frate Romualdo sul piano di Sant’Erasmo (oggi nei pressi di villa Giulia). Condannata dall’inquisizione nel 1699 per quietismo e molinismo, quindi un’eretica, venne reclusa insieme al frate nelle carceri del Palazzo Steri. Passarono 4 lunghi anni sotto tortura e sevizie di ogni tipo, fino a quando durante un interrogatorio suor Geltrude dichiarò che l’inquisizione era opera del diavolo, così venne dichiarata “eretica formale impenitente e destinata alla giustizia di fuoco”. Ma dalla Spagna arrivò l’ordine di tenerli in prigione fino al loro pentimento (forse perché erano religiosi evitarono di fare scandalo). Non si pentirono e furono torturati per anni fino a quando nel 1720 venne l’ordine di esecuzione, dal “passeggero” dominatore austriaco.

Spesso però il gentil sesso non è sempre vittima come una mente superficiale potrebbe pensare, anzi tutt’altro! Ne sono un esempio Giulia Tofana e Giovanna Bonanno, due “serial killer” del XVI- XVII secolo.

La prostituta Giulia Tofana, nata nella zona del Papireto, proveniva dai bassifondi della società dell’epoca, anche se da un lato era povera e viveva di stenti dall’altro era ingegnosa e furba, tanto da inventare un veleno, appunto l’acqua tofana, un veleno inodore a base di arsenico e antimonio che somministrato a piccole dosi e regolarmente, porta alla morte. Dopo aver riscosso molto successo con questo veleno e soprattutto molto denaro, si trasferì a Roma conducendo una vita agiata, chiudendo così un capitolo della sua vita. Ma i tempi di tranquillità durarono poco, fino a quando conobbe una dama romana la quale si lamentava dei continui abusi da parte del marito. Così Giulia ricominciò a produrre il veleno non solo per lei ma anche per altre clienti, fino a quando una sua cliente commise un errore e versò tutto il veleno nella zuppa del marito, il quale morì sul colpo. Ciò destò sospetto e si risalì subito a Giulia, che venne incolpata insieme alle sue 600 clienti di assassinio. Le spose vennero murate vive mentre Giulia venne torturata e poi rilasciata grazie alla sua buona difesa in tribunale: secondo gli atti giudiziari i miscugli che preparò erano a scopo curativo per la pelle, erano le sue clienti che ne fecero un cattivo uso. Dopo questo evento giudiziario si persero le sue tracce e non si seppe più che fine abbia fatto.

Sulla scia di Giulia Tofana ci fu una donna che venne considerata, poi nell’800, alla stessa stregua dell’odierno Uomo Nero per i bambini, cioè di Giovanna Bonanno, alias “la vecchia dell’aceto”.

Nata agli inizi del ‘700, Giovanna nacque nella miseria in quartiere di Palermo, la Zisa, in cui ricchezza e povertà convivevano pacificamente. Essa viene ricordata soprattutto per i suoi intrugli, inizialmente d’amore, e successivamente quelli letali. Il cambiamento avvenne quanto la figlia di una sua vicina bevve per sbaglio un intruglio contro i pidocchi, tanto da far contorcere di dolore e spasmi la bambina. Così andò dal droghiere che aveva venduto l’intruglio alla donna per saperne la composizione, aceto e arsenico. Capii subito che con un accurato dosaggio poteva creare un potente veleno e quindi venderlo clandestinamente, Bisognava capire solo se avrebbe fatto davvero effetto. Non passò molto tempo e subito si presentò l’occasione giusta per testarlo sul marito di una donna, Angelina, la quale aveva intenzione di sbarazzarsi del coniuge per godersi la vita con il suo amante: il veleno fece effetto tanto che i dottori non seppero dare una spiegazione alla morte dell’uomo. Da quel momento in poi una serie di avvelenamenti e morti si diffusero nella zona della Zisa fino a quando Giovanna cadde in un intrigo da parte di una sua cliente per smascherarla con l’aiuto di altri quattro testimoni. Dopo essere stata torturata confessò tutto e venne incolpata di veneficio e stregoneria, quindi condanna a morte per impiccagione alla quasi veneranda età di 80 anni. Soltanto successivamente con Luigi Natoli, la figura della Bonanno assunse un aspetto più tetro e mistico.

Mentre queste donne portarono un velo di oscurità a Palermo, altre portarono lo splendore come Franca Florio, moglie dell’industriale Ignazio Florio, donna dotata di carisma, eleganza, intelligenza e saggezza tanto da ricoprire un ruolo fondamentale nella gestione dell’economia della famiglia che spaziava dalle banche alle tonnare passando per la flotta navale, donna di grande ingegno e bellezza rappresentò Palermo di quell’epoca, si diceva infatti di una bella donna l’espressione “e ccu è? Franca Florio?”.

Altre donne hanno portato luce su Palermo proveniente persino dall’altro capo del mondo per lasciare un segno, come Kiyohara Tama chiamata anche Eleonora Ragusa (Tokyo 1861- Tokyo 1939), moglie dello scultore palermitano Vincenzo Ragusa. Eleonora fu una pittrice giapponese e illustratrice reporter e a 23 anni divenne vicepreside della scuola d’arte del Museo artistico Belvedere con sede a Palazzo Belvedere. Insieme al marito fondarono l’Istituto d’Arte di Palermo, che oggi porta i loro nomi. Ma nel 1927, dopo la morte del marito, ritornò in Giappone per aprire un laboratorio artistico. Secondo il suo volere, le ceneri di Kiyohara Tama sono state divise, una parte in Giappone ed un’altra vicino al marito nel cimitero dei Rotoli di Palermo. Un suo ritratto è esposto al GAM di Palermo per opera del marito stesso.

La nostra terra ha accolto anche donne del calibro di Tina Whitaker, incantevole voce lirica ma donna tormentata dall’impossibilità di raggiungere i suoi obiettivi musicali tanto che li sfogherà nelle figlie; oppure la scrittrice palermitana Livia De Stefani autrice de” La vigna di uve nere” (1953), che rappresenta la mentalità siciliana della sua epoca. I nomi di tutte quelle donne che hanno dato un contributo a Palermo e alla Sicilia non posso essere elencate solamente in un unico articolo, donne che hanno messo in gioco tutto ciò che avevano a loro disposizione per una causa più alta, la loro vita e i loro ideali. Perciò quando penserete all’8 Marzo come una “festa” riflettete bene su ciò che vi ho detto all’inizio, rispetto per le donne che hanno dato tutto per le successive generazioni.

 

Mar 9, 2016Pierpaolo Cimino
Intervista a Claudia Fucarino: La Palermo delle donne[evento segnalato] Processione dei misteri in una provincia di Palermo: Montelepre
Pierpaolo Cimino

Ha conseguito la laurea Magistrale in Studi Storici e Geografici presso l'Universit

9 years ago Palermo centro8marzo, donne, palermo, storia1,578
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