Nella notte tra il 14 e il 15 gennaio di 47 anni fa un violento terremoto seminò morte e distruzione nei paesi della Valle del Belice. L’evento sismico colpì una vasta area della Sicilia occidentale compresa tra le province di Palermo, Agrigento e Trapani. Chi ha vissuto almeno una volta un terremoto, sa che esso è come un respiro profondo e inquietante che si innalza dal centro della Terra; un grido selvaggio e folle che frantuma l’aria e scuote le case; un canto stregato, irreale, degno di un film del regista e fumettista giapponese Hayao Miyazaki.
Qui non vogliamo, però, parlare di morti e feriti, che pure furono tanti; qui vogliamo parlare di orfani e schiavi. Perché dopo le scosse del 1968, è questo che erano gli abitanti di Gibellina, Poggioreale, Salaparuta, Montevago, Menfi, Partanna, Grisì, Camporeale, Chiusa Sclafani, Contessa Entellina, Sambuca di Sicilia, Sciacca, Santa Ninfa, Salemi, Vita, Calatafimi, Santa Margherita di Belice: orfani e schiavi.
Orfani di parenti, di una casa, di un quotidiano conosciuto e, nella peggiore delle ipotesi, orfani di un paese raso al suolo i cui superstiti furono poi costretti a vivere in un paese straniero, nuovo, ricostruito distante dalle rovine dell’antico centro abitato. Orfani quindi, costretti a scindere la vita dalla memoria: vivere in un luogo presente e pensarsi in un passato letteralmente andato in rovina.
Ma i superstiti dell’evento sismico di 47 anni fa furono anche schiavi: schiavi di una burocrazia lenta che uccide più del terremoto; schiavi costretti a vivere in baracche con tetti, pareti e vasche per l’acqua completamente in amianto; schiavi in attesa di una ricostruzione che ha sempre stentato a decollare e che non può ancora dirsi completamente ultimata.
Il terremoto della Valle del Belice è forse il simbolo di quella atavica impreparazione italiana a far fronte alle emergenze; è l’esempio dell’incapacità dei governi di programmare velocemente la ricostruzione e il futuro dei piccoli centri; è l’emblema di come le amministrazioni non siano in grado di progettare e far prevenzione civica.
Oggi chi non si scuote, non si domanda, non interroga se stesso e gli altri sul proprio ruolo all’interno della società, chi non pretende risposte, chi si disinteressa, chi si rifiuta di sensibilizzare l’opinione pubblica e preferisce le lamentele fine a se stesse è solo un morto che parla in attesa di un’altra catastrofe.


